GENERE E COLONIALISMI Prospettive non egemoniche

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Pubblicato il 12.03.2021 su olaamericana.info

di Silvia Fredi e Miria Gambardella


VECCHIE E NUOVE FORME DI COLONIZZAZIONE DELLE SOGGETTIVITÀ NON CONFORMI

In epoca coloniale, uno degli aspetti culturali più inquietanti agli occhi del colonizzatore europeo, in diverse zone del mondo, fu certamente la presenza, integrata ed attiva nelle comunità native, di individui di genere non conforme.

Sono numerosi i resoconti dei conquistadores che ci parlano di questo fenomeno, ovviamente inquadrato sotto una lente collocata nella cultura europea dell’epoca: le prime fonti parlano di “sodomiti, invertiti, peccatori nefandi”. Un primo termine ombrello venne coniato, per riferirsi a queste soggettività, dall’ordine dei Gesuiti nel testo “The Jesuit and allied documents: travels and explorations of the Jesuit missionaries in New France, 1610-1791“: la parola berdache, con il suo bagaglio di razzismo e intolleranza, venne utilizzata anche più avanti, oltre che da esploratori di fortuna e missionari, anche dai primi antropologi europei che studiarono il fenomeno. Numerosi sono gli equivoci che nascono quando si interpretano i mondi altrui con le categorie del proprio. Le figure sociali native di genere non conforme vennero quindi collegate all’idea europea dell’omosessualità, a quei tempi considerata una patologia psichiatrica deviante.

Boténadleheemanehçacoaimbergacudinhosguaxulhamana.. in ogni contesto, le persone che furono viste come non conformi dai colonizzatori, avevano un termine descrittivo specifico in ogni lingua e ruoli, caratteristiche, comportamenti, iniziazioni e simbologie specifiche per ogni società nativa.

Anche durante il fascismo, la presenza di coloni italiani in Eritrea ebbe un forte impatto sulle comunità locali, in particolare nell’ambito dei sistemi relazionali e pratiche sessuali. In alcune comunità tigrine le attività sessuali non erano direttamente legate alla convivenza nè alla costituzioni di nuclei familiari stabili. Le donne intrattenevano rapporti sessuali con più partner senza che questo ne implicasse la stigmatizzazione. Queste pratiche erano parte integrante della vita quotidiana e identificarsi come donne, madri o mogli non solo non risultava incompatibile, ma non era necessariamente associato a un comportamento sessuale normato da regole sociali prestabilite.

Nelle aree dell’ovest le donne avevano ruoli importanti, i coloni parlarono di matriarcato perché non capivano l’organizzazione basata sulla matrilinearità. Le donne tigrine cristiano-copte dell’altipiano erano invece quelle con cui avvenivano maggiori unioni con gli italiani, in questi casi le donne divenivano concubine, intrattenevano relazioni stabili e se avevano figli non era vietato sposarsi, anche nei casi in cui gli uomini italiani risultassero già sposati in Italia. 

La pratica del demods racconta di un patto consenziente in cui la donna offriva servizi domestici e sessuali in cambio di una casa e un compenso. Il contratto poteva essere rinnovato o sciolto da chiunque dei due in qualunque momento, ma in questo caso la donna riceveva comunque il compenso. Se una donna scopriva di essere incinta bastava che pronunciasse il nome del padre e costui era obbligato a prendersi la responsabilità della creatura, riconoscendola formalmente e occupandosi della sua crescita. Anche in caso di stupro, la donna non doveva dimostrare nulla, non le veniva richiesto di dimostrare di essersi difesa, anche in questo caso bastava che pronunciasse il nome di chi aveva agito la violenza.

Al di là della pratica del demods, inter-agita nel processo coloniale, la prostituzione in Eritrea e in Etiopia all’epoca non era giudicata negativamente dalla società, rappresentava piuttosto una fonte di reddito e di esperienza per le donne che acquisivano competenze viste socialmente come positive, che ne aumentavano la desiderabilità e le possibilità di sposarsi.

Riportiamo di seguito, senza pretese di essere esaustiv*, alcuni tratti di alcune culture native relativi alle figure gender mixed che ci sono sembrate particolarmente interessanti. In numerosi casi, l’appartenenza ad una sorta di terzo genere veniva fatta risalire ad un’entità, una divinità o uno spirito. La persona poteva ricevere una “chiamata”, poteva “essere riempita” da un invisibile, la sua condizione spesso si verificava per mezzo di sogni, visioni, antenati.

All’interno delle società native, questa categoria di persone era economicamente integrata, attiva e di supporto alla comunità e alla famiglia. Molto di rilievo, in alcuni contesti, era il ruolo spirituale delle persone gender mixed: tra i popoli nativi della California, ad esempio, erano loro che si occupavano delle funzioni rituali funebri; in altre comunità avevano specifici compiti come curander*s e sciaman*, anche in contesti di guerra praticavano le loro abilità di cura e di protezione con grandi riconoscimenti sociali. 

I rapporti e le pratiche sessuali non eteronormate erano relativamente diffusi all’interno degli stili di vita di queste civiltà e variamente integrati in società non criminalizzanti; tuttavia, il processo identitario che le voci native ci suggeriscono, non è tanto incentrato sul piano sessuale quanto invece su quello spirituale e comunitario. Ricordiamoci che il genere, come costrutto, non è che un contenitore di significati culturali specifici, pertanto – nella galassia delle popolazioni native – troveremo significazioni molto diverse dalle classiche categorie occidentali. Per esempio, tra i Navajo il genere era immaginato e concettualizzato come un cerchio, prevedendo ben 5 categorie di genere. Ci sono anche esempi di identità fluide, temporanee, adottate solo in determinate circostanze.

L’impatto del colonialismo predatorio è ormai noto: in tutti i continenti conquistati dall’Occidente si è tentato di esportare la cultura europea, inculcare forzatamente i criteri morali, le forme sociali, i tabù e la religione cattolica (laddove erano rimaste popolazioni da addomesticare che non fossero già state eliminate fisicamente dalla faccia del pianeta). Alla fine di questo processo, di questa varietà di significati e ruoli di genere, non restano che briciole. Più tardi, nelle esperienze coloniali della modernità, le cose non furono assolutamente diverse: la logica rimase quella della supremazia sia in termini fisici che morali, e non venne a mancare nemmeno l’aspetto sessualizzante che, in maniera trasversale a tutte le circostanze specifiche di spazio-tempo, caratterizza le relazioni di tipo coloniale.


IL CASO TWO SPIRIT IN AMERICA DEL NORD

Nel contesto nordamericano, gli aspetti culturali del processo coloniale si sono concretizzati anche con un sistema educativo specifico: dopo una prima stagione coloniale in cui a occuparsi di educazione furono soprattutto le missioni religiose, la questione prese forme più istituzionali. I bambini in età scolare venivano prelevati in maniera coatta dalle comunità e dalle famiglie di origine, per essere inseriti in strutture chiamate boarding schools oresidential schools. All’interno di questi collegi l* giovani nativ* venivano letteralmente spogliat* della propria cultura di provenienza, di ogni riferimento e legame con la comunità, e poi rivestit* con abiti europei e rieducat* alla cultura cristiano-europea, considerata come unica “vera civiltà”, unico ordine possibile. 

“A great general has said that the only good Indian is a dead one, and that high sanction of his destruction has been an enormous factor in promoting indian massacres. In a sense, I agree with him, but only in this: that all the indian there is in the race should be dead. Kill the indian in him, and save the man.”

Richard Pratt

Questa citazione di Richard Pratt, fondatore della Carlisle Indian Industrial School nel 1879, rende bene l’idea di quale fosse la “filosofia educativa” di questi progetti. 

All’interno degli insegnamenti da inculcare con forza nelle menti dei bambini c’era, ovviamente, anche il binarismo di genere e una “appropriata sessualità”. Venne quindi a mancare, a molte soggettività, la possibilità di collocarsi come gender mixed nelle proprie società di origine e addirittura la facoltà di nominare quel tipo di ruoli con il divieto di utilizzare la lingua madre. 

La reazione dei popoli nativi a questa operazione di cancellazione e indottrinamento si espresse già all’interno delle scuole stesse, in cui si registrarono diversi casi di fughe, resistenza attiva o passiva di fronte alle imposizioni delle istituzioni. Lì iniziarono a formarsi i primi gruppi organizzati di studenti e prese forma la costruzione di una identità pan-indiana. Fu proprio in questi contesti di segregazione, di alienazione dalle comunità di origine, che iniziò a svilupparsi un discorso che coinvolgeva tutt* indipendentemente dall’appartenenza specifica, attraverso l’uso dell’inglese come lingua veicolare.

Parallelamente, anche nelle riserve in cui erano confinati i nativi adulti, veniva fatto un lavoro di sostituzione dei riferimenti tradizionali con i dettami della morale cristiana: ci fu una ristrutturazione quasi totale delle strutture sociali e una generale patriarcalizzazione delle società, in cui si radicarono con il passare del tempo le idee omofobe dei colonizzatori.  A fronte di questa profonda distorsione subita dai valori delle comunità, le soggettività che non si conformavano con il nuovo ordine non trovarono accoglienza nelle loro famiglie d’origine, e ci fu un movimento di molt* verso le grandi città, alla ricerca di un contesto in cui vivere liberamente le proprie identità e orientamenti. 

Fu quindi nei grandi centri urbani che le connessioni costruite nelle boarding schools furono rinsaldate, specialmente da quant* si ritrovavano sostanzialmente senza legami e riferimenti in grandi metropoli abitate perlopiù da bianchi eurodiscendenti – ormai a questo punto diventati americani, dopo l’indipendenza delle colonie – e da afrodiscendenti. Iniziarono ad essere organizzati meeting e una costellazione di gruppi organizzati si misero a comunicare dando vita a federazioni come ad esempio la Gay American Indians nel 1975 a San Francisco. Insieme, durante la Terza Conferenza annuale intertribale delle comunità gay e lesbiche Native Americane e First Nation del 1990, coniarono il termine Two Spirit: parola ombrello per indicare sia persone appartenenti alle categorie tradizionali delle comunità native, sia le identità di genere più contemporanee, con la comune e primaria caratteristica di essere appunto appartenenti o discendenti di comunità indigene.

Two Spirit è un concetto includente dal punto di vista etnico e culturale e anche dal punto di vista delle identità di genere e degli orientamenti sessuali e sentimentali. All’interno di questo concetto ci sono entrambe le questioni, ma il primato, l’aspetto principale in cui si identificano le persone Two Spirit e su cui portano avanti le loro rivendicazioni nel presente, è l’appartenenza o la discendenza da comunità native. 

Questo nuovo movimento sta portando avanti un discorso politico di rivendicazione di diritti e riconoscimento ma non solo: uno degli obiettivi più importanti e con maggiore spinta decolonizzante è proprio rivolto alle comunità native di origine. Le persone Two Spirit si dedicano con impegno al recupero, alla trasmissione e alla riabilitazione delle narrazioni tradizionali, specialmente quelle riguardanti le soggettività gender mixed che sono state cancellate e seppellite dai precetti religiosi cristiani. Non solo reclamano uno spazio nella società nordamericana come persone appartenenti o discendenti di popoli nativi, ma stanno ricreando questo spazio anche all’interno delle rispettive comunità originarie. Ritessendo i fili delle loro stesse tradizioni e portando avanti un grosso lavoro di studio e di divulgazione dentro e fuori il mondo nativo, disegnano traiettorie “di ritorno” dal centro verso le periferie.


GLOBALIZZAZIONE SESSUALE, LAVORO DI CURA E DESIDERIO

Il caso della diaspora afro-surinamese

“Con globalizzazione sessuale intendo i vari modi in cui il rapido flusso di capitali, persone, merci, immagini e ideologie attraverso i confini nazionali, che trascina continuamente il mondo in reti interconnesse, struttura il campo della sessualità.”

Inda e Rosaldo in Wekker 2006: p. 223

Hall definisce “imperialismo globale” una divisione del lavoro che riproduce schemi propri all’epoca coloniale. Nei Paesi Bassi postcoloniali, ad esempio, attualmente sono “principalmente donne dalla pelle scura a prendersi cura di corpi bianchi maschili e femminili della classe media” (Wekker 2006: p. 233). Wekker si interroga sulla globalizzazione sessuale e su come le donne afro-surinamesi vi abbiano partecipato. La prospettiva proposta si distingue dagli studi esistenti che si sono focalizzati prettamente su pratiche sessuali tra uomini. In questo contesto i processi migratori occupano un ruolo fondamentale: nei Paesi Bassi molte donne della diaspora afro-surinamese lavorano nell’ambito “della cura e dell’amore”, secondo una suddivisione del lavoro basata su dimensioni di genere, di classe e provenienza.

Con The Politics of Passion Gloria Wekker ci porta in Suriname analizzando un’antica pratica chiamata mati. Le vite delle donne afro-surinamesi descritte non sono strutturate attorno al matrimonio, creano forme di convivenza, genitorialità, intimità, legami emotivi e rapporti sessuali che non sono riconducibili né all’eterosessualità né all’omosessualità. Questa tradizione mobilizza relazioni e desiderio sfidando le categorie occidentali di identità di genere, identità sessuale, istituzione del matrimonio, famiglia nucleare.

Un altro fenomeno di imperialismo globale è rappresentato dalla narrazione dominante nei Paesi Bassi che tende a omogeneizzare i rapporti affettivi e sessuali tra donne, etichettando come “tradizionali” le pratiche affiliate con il mati afro-surinamese e “moderni” orientamenti classificabili come lesbismo (Wekker 2006: p. 255). Questa generalizzazione non lascia spazio concettuale a forme alternative di soggettività sessuale, fissando identità sessuali gay e lesbiche come l’unico orizzonte possibile e rispettabile per intendere e praticare il desiderio tra donne.

“Sebbene la globalizzazione sia vista come liberatrice e promotrice della differenza sessuale, l’emergenza, la visibilità e la leggibilità di queste differenze sono spesso predicate con discorsi globalizzanti, basati su una narrativa dello sviluppo per la quale modi di essere queer premoderni, prepolitici e non Euro-Americani devono consapevolmente assumersi il peso di rappresentarsi a sé stessi e agli altri come “gay” per conquistare consapevolezza politica, soggettività e modernità globale.”

Inda e Rosaldo in Wekker 2006: p. 223

Tra le nuove generazioni, alcune donne di origine afro-surinamese si autodefiniscono lesbiche, senza che questo implichi un distanziamento dalla spiritualità mati che continua a rappresentare un’importante fonte di senso. Donne di altre generazioni praticano invece il mati senza aderire a identità sessuali esclusive. A dimostrare l’essenza cambiante e dinamica dei movimenti di riappropriazione di queste pratiche è il fatto che siano coinvolte anche donne danesi.


SOGGETTIVITÀ NATIVE E MOVIMENTI LGBTQI+

L’incontro delle soggettività native non conformi (singole persone e collettivi) con il mondo lgbtqi+ ha presentato sin da subito delle criticità.

Riferendoci al caso nordamericano, per esempio, già negli anni ‘70 ci furono i primi contatti tra le comunità gay statunitensi e canadesi e i nativi confluiti nelle metropoli dopo il rifiuto da parte delle comunità di origine. In quel periodo il movimento omosessuale stava portando avanti una lotta per i diritti civili sul piano politico e sociale, una stagione in qualche modo aperta dai noti fatti accaduti a Stonewall nel giugno del 1969. In quella fase i gruppi erano per la maggior parte formati da uomini cisgender bianchi, vi era una evidente sottorappresentazione della componente femminile e di quella afroamericana, nonchè delle identità di genere non conformi. Ancora minormente rappresentata era la comunità dei nativi, i quali se da un lato erano alla ricerca di uno spazio di libertà e di espressione, dall’altro non si identificavano propriamente nello stesso modo in cui lo faceva il movimento. Una delle spinte fondamentali alla nascita delle organizzazioni Two Spirit fu proprio il differente posizionamento valoriale, il sentimento di non identificazione e di non rappresentazione, talvolta addirittura di emarginazione e rifiuto da parte dei gruppi organizzati lgbtq+ nei confronti delle persone native. 

La componente dell’appartenenza etnica e culturale è fondamentale per inquadrare questa distanza tra i due movimenti: le soggettività native non si ritrovavano per niente negli stili di vita occidentali, avevano una concezione negativa della comunità gay che frequentava i locali, conduceva vite considerate promiscue e pericolose e, ad ogni modo, non aveva molto a che vedere con le specifiche configurazioni culturali native riguardanti generi e sessualità non conformi, più focalizzate su aspetti spirituali e comunitari piuttosto che sulla dimensione fisica.

Diventa evidente che nonostante le due comunità abbiano delle caratteristiche parzialmente sovrapponibili, non è possibile comprendere la realtà nativa con uno sguardo occidentale. L’appropriazione da parte di soggettività queer contemporanee di termini come Two Spirit – avvenuto soprattutto in contesti di impronta New Age, facenti parte della costellazione dei movimenti lgbtq+ – è considerato molto disturbante per le persone native, soprattutto perchè queste parole sono state scelte – recuperate dalla tradizione o costruite – proprio per rappresentare la molteplicità delle oppressioni subite, con un particolare accento posto sul dato della provenienza culturale ed etnica. 

Questo rapporto, tra convergenze e divergenze, ha portato ad una critica da parte delle soggettività native sui movimenti lgbtqi+: diamo voce ad alcune di queste critiche, con la consapevolezza che, nonostante gli attriti, il dialogo e lo scambio tra le comunità è continuato, e convint* che debba proseguire.

“Definirsi lesbica e aymara vuole anche dire che nel mondo aymara esistono donne che hanno pensato di costruire la propria vita e il proprio piacere con altre donne, e non è qualcosa di inedito nella comunità, ancestralmente nei nostri popoli c’è stato ma ha smesso di essere definito tale.”

Adriana Guzmán

Adriana Guzmán, del popolo aymara boliviano, si definisce “femminista comunitaria” e lesbica. Ci racconta, con il suo intervento, di come si sia sentita maggiormente giudicata in alcuni ambienti lgbtqi+ piuttosto che nella propria comunità di appartenenza. Ci parla di una contesto in cui l’accettazione passa dalla partecipazione attiva alla vita sociale e comunitaria, dal contributo personale che *l* singol* deve dare al gruppo, indipendentemente da quale che sia il genere o l’orientamento in cui si riconosce. 

“Come puoi chiedere di non essere discriminat* se tu stess* discrimini altri corpi?”

Adriana Guzmán

Nella sua critica, identifica il movimento lgbtqi+ come il prodotto di una mentalità bianca coloniale, che ha finito per diventare funzionale al sistema senza destrutturarlo. L’accento è posto sul rischio di sussunzione di movimenti di liberazione come quello per i diritti  lgbtqi+ da parte di un sistema economico egemone che necessita dell’atomizzazione sociale per garantire privilegi e generare profitti. 

Il vissuto di questa donna, all’interno dell’organizzazione più ampia di una comunità indigena, ci porta ad interrogarci sul nesso indissolubile che da sempre siamo abituat* a tracciare tra la nostra identità nazionale, quella di genere e le nostre pratiche sessuali. Ci invita a questionare la concezione stessa di un’identità da scoprire come se si trattasse di un territorio pronto ad essere conquistato tramite un gesto coloniale. In ultima istanza, ci spinge a rivalutare categorie identitarie fondate su soggettività al singolare per ricollocarle sul piano comunitario e relazionale. Una rilettura critica di queste rivendicazioni sottolinea la necessità di fare di ogni voce non conforme un appello collettivo e organizzato capace di pensare e praticare alternative reali. 

Un altro tema importante, sottolineato da Nxu Zänä, indigena ecuadoriana, è un differente valore dato ai termini e alle categorie. Se la teoria queer punta ad un ideale superamento delle definizioni, la controparte nativa invece sta portando avanti con forza la rivendicazione di categorie culturali tradizionali come forma di azione e di lotta decolonizzante. 

“Cercare di proporre una ibridazione, con la scomparsa delle identità con il pretesto di andare contro alle tendenze omogeneizzanti, forse non è in fondo la stessa cosa? … l’identità, a differenza di quanto pensano i queer, non solo coinvolge un ambito della vita, l’essere indigena non rappresenta solo un aspetto della mia vita, rappresenta la mia vita, la nostra vita: la forma di concepire e vivere la vita, la storia del mio popolo, la nostra cultura, la nostra relazione con il contesto in cui viviamo e in cui ci sviluppiamo, con la madre terra, la forma di relazionarci tra noi”

Nxu Zänä

CONCLUSIONI

Abbiamo attraversato storie e geografie identitarie, parlato di lavoro di cura, sistemi familiari, desiderio e sessualità. Siamo partit* dall’epoca coloniale per parlare di uno sguardo che s’impone sulle diversità ponendosi al centro, ergendosi a normalità, determinando i margini di ciò che è consentito.

Gli studi postcoloniali, da Said a Fanon, passando da Spivak, portano alla luce le pesanti conseguenze di processi più o meno attuali di colonizzazione, sottolineando le dinamiche di potere che stanno alla base della produzione di sapere e di una scrittura della storia dei popoli che ne traccia anche le sorti future. Il terzomondismo cerca i colpevoli del perpetrarsi di disuguaglianze in paesi condannati alla subalternità.

L’eurocentrismo non è morto con la fine dell’epoca coloniale, sopravvive nella globalizzazione di strutture di oppressione che escludono sul piano economico, sociale, culturale, identitario e, come abbiamo visto, anche su quello del desiderio. Amare in tutta libertà sembra ormai apparentemente possibile nell’era della modernità liquida in cui “l’unica certezza è l’incertezza” (Bauman 2011). Essere queer o appartenere a movimenti lgbtqi+ si fa meno tabù in Occidente man mano che i colori dell’arcobaleno entrano a far parte dell’estetica mainstream, diventando prodotto di marketing e che a sfilare per le strade ai Gay Pride scendono anche le multinazionali. La liquidità propria della modernizzazione va però di pari passo con l’atomizzazione sociale che l’economia di mercato neoliberista porta inevitabilmente con sé.

Il rischio permane: proiettare lenti di lettura del proprio mondo su mondi altri che non sempre si prestano a conformarsi a categorie di pensiero costruite in secoli di dominio. Anche molte relazioni di aiuto e legami di solidarietà internazionali, dal mondo della cooperazione allo “sviluppo” all’altermondismo, sono state e in alcuni casi permangono imperniate da gesti e mentalità neocoloniali.

L’equazione tra sapere e potere investe anche il mondo scientifico e l’antropologia si è ampiamente interrogata sui rischi occidentalocentrici insiti alla propria disciplina. A tale rischio non ha trovato alcun rimedio assoluto, ma ha scelto di prendere posizione per un’antropologia non egemonica tentando di decolonizzare le proprie metodologie (Smith in Saillant, Kilani e Graezer Bideau 2012: p. 71) e praticando la “decolonizzazione permanente del pensiero” (Viveiros de Castro, 2011: p. 5).

In un’ottica intersezionale che accoglie le complessità, questi elementi vanno ad intersecarsi e i movimenti di solidarietà e dissenso evolvono, ricollocandosi e ridefinendosi forse proprio grazie al posizionamento di tutte quelle soggettività storicamente “escluse” che di volta in volta prendono parola.


Nb. Le espressioni “di genere non conforme”, “gender mixed”, “terzo genere”.. sono termini utilizzati per indicare l’oggetto dell’analisi, con la consapevolezza che si tratta di espressioni basate sul sistema di genere binario. Ci riconosciamo collacat* e semplicemente abbiamo scelto di usare le parole che abbiamo a disposizione, non senza però sottolinearne i limiti.


BIBLIOGRAFIA

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BAUMAN Zygmut. Modernità liquida. 2011, Bari: Laterza. 310 p. 

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FERNANDES Estevao Rafael. Homosexualidades indigenas y descolonialidad: algunas reflexiones a partir de las críticas Two Spirit. 2014, Bogotá: Tabula Rasa n. 20:135-157

SAID Edward. Orientalismo. 1999 [1978], Milano: Feltrinelli. 400 p.

SAILLANT Francine, KILANI Mondher et GRAEZER BIDEAU Florence (a cura di). Per un’antropologia non egemonica. Il Manifesto di Losanna. 2012, Milano: elèuthera. 160 p.

SORGONI Barbara. Parole e corpi. Antropologia, discorso giuridico e politiche sessuali interrazziali nella colonia Eritrea. 1998, Napoli: Liguori. 304 p.

SPIVAK Gayatri Chakravorty. Critica della ragione postcoloniale. Verso una storia del presente in dissolvenza. 2004, Milano: Meltemi. 480 p.

VIVEIROS DE CASTRO Eduardo. Metafisiche cannibali. Elementi di antropologia post-strutturale. 2017, Verona: ombre corte. 237 p.

WEKKER Gloria. The Politics of Passion. Women’s Sexual Culture in the Afro-Surinamese Diaspora. 2006, New York: Columbia University Press. 336 p.

SITOGRAFIA

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IANNETTI Domenico. Il pregiudizio dei conquistadores e i costumi sessuali degli Amerindi.

Movimiento Maricas Bolivia. Q’iwsa Queer: la identidad marica y precolombina. 18 settembre 2019, Revista La Tetera.

TANGUAY Nicole. En el espíritu de Beth: cómo el espacio indígena se torna queer. Goethe-Institut Mexiko.

ZÄNÄ Nxu. Contra la teoría Queer (Desde una perspectiva indígena). Ecuador Today.



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Nella puntata di lancio parliamo proprio di questo articolo:

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